Gaetano Sabatini
Università Roma Tre
Ringrazio sentitamente l’Istituto Luigi Einaudi, qui autorevolmente rappresentato dal Presidente, Dott. Maurizio Sella, e dal Segretario Generale, Dott. Federico Pascucci, per avermi invitato a presentare il volume di Francesco Dandolo, offrendomi l’occasione di tornare a riflettere su temi già frequentati in precedenti occasioni di studio.
Molto è già stato detto negli interventi che mi hanno preceduto, tanto più che le considerazioni svolte dal Dott. Sella e dal Dott. Patuelli, nonostante fossero state annunciate come introduttive, non hanno avuto affatto un carattere unicamente celebrativo, ma sono entrate nel merito dell’opera che stiamo presentando. Per altro verso, ricchissima e articolata, nonostante l’obbligata sinteticità, è stata la relazione dell’amico e collega Giovanni Farese.
Ciò stante, a me compete una lettura complessiva dell’opera integrando le due parti che la compongono, ma soprattutto sottolineandone le caratteristiche che la rendono, sotto molti aspetti, un unicum.
Questo volume rappresenta, infatti, un tentativo assolutamente originale nella storiografia economica italiana di guardare allo sviluppo economico dell’Italia dalla fine del secolo XIX al primo dopoguerra attraverso il duplice prisma della storia dell’associazionismo imprenditoriale italiano e della acuta osservazione e rielaborazione teorica che di questa realtà fece quello straordinario scienziato sociale che fu Luigi Einaudi negli anni che segnarono il passaggio dalla sua giovinezza alla maturità.
Furono questi gli anni che egli dedicò maggiormente sia all’insegnamento universitario, a Torino dal 1902 e, poi, a Milano dal 1904 e fino al 1926, sia a un’intensa attività pubblicistica che, tra l’altro, lo vide prima collaboratore, poi condirettore e infine direttore e comproprietario de La Riforma Sociale, la rivista italiana che maggiormente concorse alla formazione di una coscienza collettiva in campo sociale nei primi due decenni del Novecento.
L’unicità dell’opera non sta solo nel collegare, attraverso la figura di Luigi Einaudi, la storia economica e la storia del pensiero economico con riferimento a una fase e a una specifica tematica di fondamentale importanza nel percorso dello sviluppo economico italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma anche nel guardare in forma unitaria a fenomeni di associazionismo imprenditoriale che fino a oggi sono stati studiati in modo separato tra di loro e sempre con riferimento al loro specifico settore di appartenenza.
Si tratta di un periodo complesso che prende l’avvio dalla crisi di fine secolo che vide, dal punto di vista istituzionale, il tentativo di far regredire lo Stato liberale alle sue origini, al motto di «Torniamo allo Statuto!», e si sostanziò nella formazione dei due Governi di Luigi Pelloux e nel rombo delle cannonate di Bava Beccaris.
Si consumò allora una violenta repressione del malessere sociale espresso dal mancato incontro tra la parte datoriale e i lavoratori per l’assenza di quei luoghi di confronto che Einaudi aveva studiato con molta attenzione nell’esperienza dell’Inghilterra e nelle altre nazioni avanzate (Francia, Germania e Stati Uniti d’America), un evidente vulnus nel cammino di consolidamento dell’economia italiana nella fase di industrializzazione che si andava compiendo.
È bensì vero che il quindicennio giolittiano, avviatosi all’indomani del regicidio di Monza, costituirà un momento di svolta, dal momento che Giolitti da una parte inaugurò un atteggiamento neutrale rispetto alle manifestazioni e alle contese sociali e dall’altra varò una legislazione che andava incontro alle richieste emergenti dalla società civile, determinando le condizioni per lo svolgimento di un duplice percorso di riconoscimento delle associazioni operaie e di creazione delle strutture dell’associazionismo imprenditoriale.
Ma è altrettanto vero che se questi nuovi soggetti associativi non avessero svolto un ruolo attivo, la sola attività realizzata dallo statista di Dronero (piemontese come Luigi Einaudi) non sarebbe stata sufficiente a garantire la pace sociale e, soprattutto, quello sviluppo economico che porterà l’Italia ad aver recuperato, alle soglie della prima guerra mondiale, una parte significativa del ritardo industriale rispetto alle altre economie europee con cui si era affacciata all’inizio del nuovo secolo.
La migliore comprensione di queste dinamiche trova una guida efficace nella lettura che Francesco Dandolo fa delle riflessioni svolte da Einaudi a seguito dell’osservazione dei momenti più significativi in cui si realizza il richiamato percorso evolutivo, che parte dal progressivo affermarsi di singole iniziative territoriali di associazionismo imprenditoriale fino alla costituzione di organiche rappresentanze a livello nazionale.
Mi si consenta, a questo punto, una breve digressione dovuta ai miei studi del mondo iberico e incentrata su una lettura comparata della situazione dell’Italia e della Spagna nel primo ventennio del Novecento, laddove i due paesi, pur affacciandosi in condizioni analoghe agli albori del nuovo secolo, fecero registrare importanti differenze proprio rispetto al fenomeno dell’associazionismo.
In particolare, l’associazionismo spagnolo fu molto più lento ad affermarsi, tant’è che il primo quindicennio del secolo fu attraversato da fortissime tensioni e caratterizzato da gravi episodi di violenza (si ricordi, per tutti, la «settimana di sangue » di Barcellona). Al contrario, il percorso che viene compiuto parallelamente dall’Italia – senz’altro favorito dall’azione di Giolitti – permise di portare il Paese alla Prima Guerra Mondiale in un clima di relativa pace sociale, nonostante episodi gravi come la settimana rossa di Ravenna del 1914, rendendo possibile una gestione delle tensioni comunque esistenti in una maniera molto diversa dall’esplosione che le avrebbe caratterizzate al termine del conflitto.
La lettura che Francesco Dandolo fa del pensiero einaudiano ci porta anzitutto a considerare le origini dell’associazionismo industriale attraverso la nascita e l’evoluzione di alcune realtà che colpirono l’attenzione dell’economista di Dogliani.
A questo riguardo, Dandolo ricorda le vicende complesse del porto di Genova e la nascita nel 1901 del Consorzio Industriale Ligure, che tendeva alla composizione dei conflitti e alla ricerca della mediazione tra le parti proprio al fine di evitare quegli episodi di tensione e di proteste che avevano lungamente caratterizzato la gestione del porto di Genova. Non diversamente un lustro più tardi, nel 1906, si registra la fondazione della Lega Industriale di Torino, che aveva anche in questo caso una funzione di camera di compensazione e di punto di incontro con le istanze dei sindacati operai in una logica di sintesi tra le parti sociali.
Attraverso questi episodi Einaudi segue, con l’occhio attento dello scienziato sociale e con la sua consueta capacità di elaborazione teorica, la graduale creazione della Confederazione Generale dell’Industria Italiana che, dopo una prima fase di fondazione nel 1910, addiviene nel 1919 alla sua forma più compiuta caratterizzata dall’adozione di logiche volte a ricercare – ancorché limitatamente alla breve stagione che precedette l’avvento del fascismo – il dialogo con le Confederazioni sindacali.
Coerentemente con il percorso di ricerca prescelto, Dandolo rievoca, in parallelo con la lettura del saggio di inquadramento storico curato da Filippo Sbrana e da Valerio Torreggiani, le attenzioni che Einaudi riserva all’associazionismo agricolo.
In proposito, viene anzitutto osservato come l’Italia avesse ereditato dal Regno sabaudo il sistema dei Comizi Agrari, che tuttavia molto presto rivelò la sua limitatezza dal momento che già nel 1868 fu necessario costituire un Consiglio Superiore di Agricoltura presieduto dal Ministro dell’Industria, dell’Agricoltura e dell’Artigianato. Questa impostazione fu oggetto di progressive riforme nel corso degli anni Settanta fino al definitivo superamento dei Comizi Agrari e alla costituzione nel 1883 dell’Associazione Italiana dei Conduttori di Fondi e nel 1895 – vero punto di svolta, compiutosi con il Governo Crispi – della Società degli Agricoltori Italiani attraverso la quale il Governo potette contare su un interlocutore unico nella gestione delle questioni riguardanti l’agricoltura. A ciò si aggiunse nel 1901 la costituzione di Federterra, che raccoglieva, sia pure limitatamente ad alcune Regioni d’Italia, braccianti, mezzadri e coltivatori diretti.
Einaudi segue con grande attenzione questi eventi che non considera meramente circostanziali, ma che riconduce a un più ampio percorso di evoluzione inserito in uno schema teorico da lui parallelamente enunciato e che, anche in questo caso, porterà nel 1920 alla costituzione di una rappresentanza unitaria a livello nazionale, la Confederazione Generale dell’Agricoltura.
Infine l’associazionismo nel settore del credito. In questo caso l’attenzione di Einaudi si concentra soprattutto sugli anni a cavallo della Prima Guerra Mondiale, laddove comincia a emergere il problema destinato a condizionare pesantemente le dinamiche del credito e, più in generale, lo sviluppo economico italiano: l’immobilizzo del capitale bancario nell’industria. Einaudi considera questo un fenomeno «scellerato»: è improprio che nei Consigli di Amministrazione delle banche siedano i clienti delle banche stesse creando una simbiosi assai pericolosa che rende difficile una sana gestione del credito.
In questa fase la posizione di Einaudi è limpidamente integralmente liberale. Essa è invece oggetto di una qualche mitigazione quando, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, giudica con favore l’iniziativa promossa dal Ministro del Tesoro, Francesco Saverio Nitti, per un accordo fra le quattro principali banche del Paese (la Banca di Sconto, il Credito Italiano, la Banca Commerciale Italiana e il Banco di Roma) volto a evitare tensioni concorrenziali che si sarebbero andate ad aggiungere all’instabilità post-bellica.
Einaudi è dunque favorevole alla costituzione di un’associazione tra le banche, a cui riconosce finalità di consulenza nel momento di elaborazione delle leggi in materia bancaria, nonché di promozione di studi e di formazione. Tuttavia insiste sulla necessità che l’iniziativa in nessun modo conduca alla formazione di un cartello che, per la visione liberista di cui egli è portatore, non può che essere considerata un ostacolo, un danno alla concorrenza al consumatore.
Sebbene vi fossero già importanti precedenti associativi a livello categoriale relativi alle Banche Popolari (1876), alle Casse Rurali e Artigiane (1909) e alle Casse di Risparmio (1912), il percorso che si conclude nell’aprile 1919 porta alla nascita di un organismo completamente nuovo, nazionale e intercategoriale, l’Associazione Bancaria Italiana, che chiude e completa la triade comprendente anche le Confederazioni che riuniscono, rispettivamente, le imprese agricole e le imprese industriali. Viene dunque a compimento, attraverso questa sincronia di realizzazioni, un processo che si può per molti aspetti considerare unitario, pur con le specificità presenti in ognuna delle tre associazioni.
Un processo completato nel breve volgere di un biennio ed è motivo di rammarico rilevare come, per un insieme di motivi, non si sia pensato di celebrare questi tre centenari in forma unitaria. Tanto più che si trattò di una sorta di «canto del cigno», in quanto quello che lo stesso Einaudi vedeva come un pericolo si sarebbe presto concretizzato allorché, con l’avvento del fascismo, la tentazione di evitare la negoziazione e la mediazione e di pervenire al ripristino dell’ordine nelle fabbriche e nei campi con la violenza dello Stato divenne irresistibile per molti imprenditori.
Come dimostra in modo molto chiaro Francesco Dandolo, la visione di una concordia ordinum tipicamente ispirata alla tradizione liberale e un contesto teorico di riferimento che insiste grandemente su una comunanza di intenti tra imprenditori e lavoratori costituiscono un punto fondamentale nel pensiero di Einaudi. Il riferimento alla visione dell’imprenditore «marshalliano» e il superamento della dimensione individualista a favore di una più ampia visione sociale rappresentano il logico completamento di una tale concezione.
A questo riguardo, mi piace ricordare un’opera scritta da Luigi Einaudi proprio all’inizio del periodo di cui stiamo parlando – Il principe mercante, edito a Torino nel 1900 – nella quale viene ricostruita la penetrazione nei mercati dell’America latina da parte di un industriale tessile lombardo, Enrico Dell’Acqua, il quale costituisce per Einaudi il prototipo dell’imprenditore che modifica la natura dell’emigrazione italiana fino ad allora connotata dal riferimento a una manodopera spesso scarsamente qualificata, rivalutando la nostra presenza sui mercati esteri.
Come è già stato ricordato, il valore dell’attualità delle riflessioni di Einaudi su questi temi risiede soprattutto nell’enfatizzazione dell’importanza del ruolo svolto dai corpi intermedi, di cui oggi si rischia di perdere la piena consapevolezza a causa delle tumultuose trasformazioni che stiamo vivendo.
Peraltro, anche il costante richiamo al valore dell’emigrazione al profondo rispetto dovuto a coloro che sono costretti ad abbandonare i loro luoghi di origine per trovare un lavoro che permetta di condurre una vita dignitosa costituisce un ulteriore elemento che ci riporta non solo all’attualità di questi temi, ma anche alla cifra caratterizzante la figura di studioso e di ricercatore di Francesco Dandolo, il quale ha sempre sposato al suo lavoro scientifico uno straordinario impegno sociale, proprio con le comunità degli stranieri migrati in Italia.