Sulla filosofia sociale di Luigi Einaudi

Giovanni Farese

Università Europea di Roma

Mandando alle stampe il volume di Francesco Dandolo su Luigi Einaudi e l’associazionismo economico nell’Italia liberale – che contiene anche un importante saggio di inquadramento storico di Filippo Sbrana e Valerio Torreggiani – l’Istituto Luigi Einaudi per gli studi assicurativi, bancari e finanziari, che è emanazione dell’Associazione Bancaria Italiana, offre un inedito e prezioso contributo all’avanzamento della cultura storico-economica del Paese. Occorre infatti sottolineare, da una parte, la novità e, dall’altra, l’originalità del volume di Dandolo. Nella pur ampia letteratura su Einaudi – si pensi, su questo tema, all’Introduzione di Paolo Spriano al volume antologico con gli scritti di Einaudi sulle lotte del lavoro, apparso nella Nuova Universale Einaudi – mancava una riflessione sull’associazionismo economico nel pensiero dell’economista e statista piemontese.

Il presidente dell’Istituto Einaudi, Maurizio Sella cita, nella Prefazione al volume di Dandolo, un passo di Einaudi, scritto nell’esilio svizzero, nel quale l’economista afferma: «la società sana è quella in cui fra l’individuo e lo Stato abbia esistenza autonoma una fitta rete di corpi intermedi (…) la famiglia (…) il collegio elettorale piccolo all’uso anglosassone perché candidati ed elettori possano conoscersi (…) l’Università (…) le leghe dei lavoratori e degli imprenditori (…) il partito politico». È una citazione opportuna, che inquadra perfettamente la problematica del volume.

Einaudi ebbe sempre una grande simpatia umana per la classe lavoratrice: per la sua elevazione morale, culturale, sociale, prima ancora che economica. Coerentemente, mostrò sempre orrore per il sindacalismo retrogrado e per il socialismo di Stato, che porta la libertà in palmo di mano soltanto per schiacciarla meglio. L’idea di fondo di Einaudi è che la società cresce – e cresce civilmente ed economicamente – soltanto se cresce tutta insieme, vale a dire con un contemporaneo e progressivo innalzamento di tutte le sue componenti, non soltanto quelle economiche. Una classe lavoratrice su posizioni arretrate spinge anche i datori di lavoro su posizioni arretrate e viceversa. Similmente, una classe lavoratrice su posizioni avanzate spinge i datori di lavoro su posizioni avanzate e moderne.

Emblematico è ciò che Einaudi scrive nella sua celebre inchiesta sulla psicologia di uno sciopero: «Le repressioni incitano a reagire e a fare domande esagerate che sono credute opportune appunto perché non si dà il mezzo di valutarne la giustizia. Le discussioni tra operai e imprenditori educano i primi a rendersi conto esatto delle varie condizioni dell’industria e a fare solo quelle domande che sono giustificate dalle condizioni del traffico, dai profitti correnti ». L’equilibro è possibile solo grazie a ciò che Einaudi chiama gli «sforzi di molti»: è un equilibrio dinamico che soltanto per un attimo può essere raggiunto; che è tale soltanto se è costantemente minacciato da forze opposte e contrarie; se è frutto della «bellezza della lotta», per utilizzare una nota espressione einaudiana.

Tuttavia – e questo aspetto va ribadito per non cadere in una visione «romantica» del pensiero di Einaudi – al centro dello schema analitico di Einaudi sta, in una prospettiva solidamente liberale, il profitto, la difesa del profitto come motore dello sviluppo, perfino la sua legittimità morale, prima che economica. In questo contesto, la regolazione libera dei rapporti tra capitale e lavoro è mezzo per lo sviluppo della produttività del capitale e così dell’intero sistema. Regolare i rapporti significa ridurre i conflitti e i rischi inerenti all’attività economica, innalzando la produttività del sistema. Vale a questo riguardo alzare lo sguardo al contesto in cui matura la riflessione di Einaudi. La questione sociale (con al centro i rapporti tra capitale e lavoro) diventa, nel corso dell’Ottocento, una delle grandi questioni della società industriale. Ai primi del Novecento, dopo i precedenti forniti dalle politiche di Bismarck all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento e dalla dottrina sociale di Leone XIII all’inizio degli anni Novanta, emerge il contributo anglosassone alla questione sociale. Il riferimento è agli Stati Uniti durante la presidenza di Theodore Roosevelt (1900-1908) e ai governi liberali (1908-1916) di Asquith in Gran Bretagna (David Lloyd George è cancelliere dello Scacchiere, mentre il giovane William H. Beveridge inizia a collaborare con il governo).

Sono questi gli anni di una prima riforma del capitalismo a carico del capitalismo, cioè all’interno stesso del capitalismo. Sono anche gli anni delle prime convenzioni internazionali sul lavoro (sugli orari, sulle tutele, ecc.). Si forma uno spazio sopranazionale, che troverà pieno riconoscimento nel 1919, con la nascita dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il cui Parlamento sarà costituito da eguali rappresentanze – ed è significativo – dei governi, dei datori di lavoro, dei lavoratori.

Einaudi coglie, in particolare, le novità emergenti nel mondo anglosassone. Porta attenzione alle esperienze, di pensiero e di azione, più avanzate: si pensi, ad esempio, al fabianesimo di Beatrice e Sidney Webb in Gran Bretagna (nel 1895 i coniugi sono, con George Bernard Shaw e Graham Wallas, i fondatori della London School of Economics il cui celebre motto è rerum cognoscere causas: un preciso richiamo alla «realtà delle cose») o al ruolo assunto dai sindacati negli Stati Uniti, a cominciare dall’American Federation of Labour, fondata a Columbus, Ohio, nel 1886.

In questo contesto, uno sguardo particolare è rivolto alla «tradizione umanistica» del pensiero liberale britannico: essa non è soltanto quella dei grandi economisti (da Adam Smith ad Alfred Marshall), ma comprende, come Dandolo mostra bene con precisi riferimenti, anche gli scrittori di cose economiche, da Thomas Carlyle a John Ruskin. Di qui, poi, l’idea meta-economica che il profitto sia un mezzo e non un fine in sé, per cui non conta tanto come realizziamo il profitto, ma piuttosto come viviamo mentre realizziamo il profitto. Non a caso Einaudi confessa di essere stato «un lettore appassionato, quasi monomaniaco, di libri inglesi fin dai banchi dell’Università».

Per Einaudi, l’economista ha una funzione «politica» in senso lato, che nulla toglie all’impegno scientifico; anzi. Vengono in luce tre aspetti. L’economista si immerge nella realtà, non sfugge alla realtà, ma la cerca; è una voce critica, in senso costruttivo, della realtà; è un pedagogo, che non solo informa, ma, dai quotidiani (si pensi al ruolo svolto da Einaudi sulle pagine del Corriere della Sera) e dalle riviste (si pensi alla Riforma Sociale), più che dalla cattedra, «forma» l’opinione pubblica. Sul primo aspetto resta esemplare, per più ragioni, lo scritto di Einaudi sulla psicologia di uno sciopero, ampiamente commentato da Dandolo, in cui l’economista si fa giornalista di inchiesta, scende fisicamente in piazza e conduce la sua indagine sul campo, tra la folla. Sul secondo aspetto, vale ricordare che il compito dell’economista, secondo Einaudi, è anche quello «di dire, quando i politici cercano in ogni modo di calmare le acque». È un concetto che si ritrova, sotto altra forma, in una memoria accademica del 1943, in cui Einaudi scrive che Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, al cui impegno pubblico l’economista piemontese si ispira, non cessarono mai «di rimbrottare, criticare, vilipendere, rarissimamente lodare governanti e governati, segnalando la via da scansare e quella da percorrere». Sul terzo aspetto basterà citare Giuseppe Prezzolini, il quale affermò una volta che, scrivendo sui quotidiani e non solo, Einaudi aveva nell’Italia liberale fatto, da solo, una opera di «educazione» più ampia di quella delle (allora) diciannove Università del Regno.

Il volume è ricco di spunti: in un’epoca, quale quella attuale, per molti versi caratterizzata dalla «disintermediazione», nelle tante accezioni possibili e nei vari campi in cui essa trova applicazione, Dandolo mette al centro le virtù della mediazione e mostra, tacitamente, la deriva contemporanea di una verticalizzazione dei processi spesso troppo spinta, nella quale si perde il ruolo e il compito dei corpi intermedi: verticalizzazione che può talvolta dare anche l’impressione di qualche decisione in più, ma che impoverisce pensiero e azione mostrandosi, nel medio termine, di corto respiro.

Dandolo ha consultato moltissimi scritti apparsi su quotidiani e riviste, intessendo un dialogo che consente di «ascoltare » la voce di Einaudi insieme a quella di numerosi protagonisti del dibattito economico del tempo, da Gino Borgatta ad Attilio Cabiati, da Marco Fanno a Francesco Saverio Nitti. In questo dialogo, Dandolo porta anche la propria sensibilità di storico attento alle questioni civili e sociali di ieri e di oggi. Ciò è evidentissimo fin dalla scelta dei titoli di alcuni paragrafi del volume: «costruire alloggi per gli operai», la «funzione sociale dell’imprenditore», la «simpatia per gli emigranti», le cui rimesse contribuiscono alla formazione di capitale nell’Italia giolittiana.

In questo senso, la ricerca di Dandolo si colloca nel solco della filosofia sociale einaudiana, attenta com’è ai fermenti economico-sociali, alla crescita sociale che accompagna quella economica.